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(LA RESPONSABILITÀ DELLA VERSIONE ITALIANA DEGLI ARTICOLI PUBBLICATI NEL BLOG DEL PROFESSOR NAVARRO È DEL TRADUTTORE, MICHELE ORINI)

Articolo pubblicato da Vicenç Navarro sulla rubricha “Dominio Público” del quotidiano PÚBLICO il 27/03/2014

In questo articolo si discutono le cause politiche che determinano l’aumento delle disuguaglianze, tema poco affrontato nella letteratura economica.

Nei paesi dell’Unione Europea ed in Nord America le disuguaglianze sono aumentate enormemente, raggiungendo un livello mai visto dai tempi della Grande Depressione degli inizi del secolo scorso. Questo aumento è stato particolarmente forte nei paesi cosiddetti PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), che vengono chiamato GIPSI quando viene considerata anche l’Italia.

Qual è la causa d’un tale aumento?

Nel recente discorso che il premio Nobel per l’Economia ha tenuto davanti alla Real Academia si può trovare una sintesi delle diverse cause che concorrono all’aumento delle disuguaglianze. Si tratta di un riassunto di tutto ciò che costituisce il pensiero comune, convenzionale, nell’economia odierna. Il difetto di questo pensiero convenzionale ormai egemonico è però quello di ignorare il contesto politico, il quale a sua volta condiziona e determina il pensiero economico stesso.

Prendiamo per esempio una delle spiegazioni più usate per giustificare la riduzione dei salari (che rappresenta una delle maggiori cause dell’aumento delle disuguaglianze), ovvero che la globalizzazione porta a muovere i capitali in paesi dove i salari sono più bassi, per poter produrre a basso costo. Questa spiegazione non tiene conto però che paesi come per esempio la Svezia e la Norvegia, il cui import-export raggiunge percentuali sul PIL tra le più alte del mondo, sono tra i paesi più globalizzati. L’economia di questi piccoli paesi è altissimamente integrata e globalizzata proprio a causa delle loro modeste dimensioni. Però in cambio i salari svedesi e norvegesi sono tra i più alti del mondo. E ciò si deve al fatto che in questi paesi il mondo del lavoro ed i suoi strumenti politici e sindacali sono molto forti e possono esercitare una forte influenza sui rispettivi Stati.

Questi dati mostrano che la globalizzazione economica non porta di per se alla riduzione dei salari, ma che quello che conta è il modo in cui si realizza e si gestisce la globalizzazione stessa. In altre parole i fenomeni economici sono determinati da variabili politiche (il cosiddetto contesto politico) e non viceversa. Questo dato di fatto viene spesso dimenticato persino da autori progressisti, come Christian Felber, che nel suo libro “L’economia del bene comune”, solo accenna al contesto politico, riducendolo di fatto ad un trattato di ingegneria economica senza considerare le variabili politiche che renderebbero possibili le sue proposte.

Perché gli indici usati per misurare le disuguaglianze non servono per capire il fenomeno

La mancanza d’attenzione verso il contesto politico ha portato al consolidamento di scienze economiche che non riescono a spiegare adeguatamente le disuguaglianze. Prendiamo per esempio gli indicatori che misurano il livello di disuguaglianza di un paese. L’indice più usato per misurare le disuguaglianze di reddito è il coefficiente di Gini, che prova a misurare il livello di disuguaglianza su di una scala che va da zero (pura equidistribuzione, situazione in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito) ad uno (disuguaglianza totale, la situazione dove una persona percepisce tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo). In generale, il coefficiente di Gini è più basso nei paesi scandinavi che nei cosiddetti paesi PIGS o GIPSI.

Ora, senza negare il fatto che questo indicatore può essere utile, la realtà è che l’informazione che apporta è molto limitata, poiché non spiega perché le disuguaglianze in un paese raggiungono un dato livello e perché variano nel tempo. Per capire, e quindi per poter misurare meglio, le disuguaglianze bisogna cominciare col capire da dove provengono i redditi. E le due fonti di reddito principali sono la proprietà del capitale ed il mondo del lavoro. Ciò significa che le disuguaglianze dei redditi dipendono principalmente dalla distribuzione della proprietà del capitale e dalla distribuzione dei redditi da lavoro. E sono le relazioni di forza e di potere tra gli interessi del capitale, da un lato, e gli interessi del lavoro, dall’altro, a determinare la distribuzione dei redditi di un paese. Le prove che avvallano questa tesi sono schiaccianti ma, stranamente, il lettore farà molta fatica a trovare un’analisi di questo tipo nei principali mezzi d’informazione.

In realtà questa è una delle ragioni che spiega la mancanza di attenzione, se non l’aperta ostilità, delle cosiddette scienze economiche verso i temi legati alle disuguaglianze. Tanto è vero che qualche anno fa il premio Nobel per l’economia Robert Lucas dichiarò che “una delle tendenze perniciose e dannose del pensiero economico … invero velenosa per tale scienza, è lo studio dei temi di distribuzione”.

Agli economisti prossimi al capitale non piace che si studino le cause delle disuguaglianze proprio perché le evidenze scientifiche mostrano che la causa principale del loro aumento si deve precisamente all’enorme aumento delle rendite da capitale a spese dei redditi da lavoro. E questa è una conseguenza del dominio delle istituzioni politiche e mediatiche da parte del capitale, dominio che ha diluito e violato il carattere democratico delle istituzioni rappresentative dei paesi che hanno assistito alla crescita delle loro disuguagliane (si veda l’eccellente libro “Il Capitale nel XXI Secolo” di Thomas Piketty, 2014).

Ma c’è di più, il protagonismo del capitale finanziario (ed in particolare delle banche) all’interno del mondo del capitale, e la diminuzione dei salari e quindi della domanda, spiega il comportamento speculativo del capitale che è all’origine della crisi finanziaria ed economica (e quindi politica) che stiamo vivendo. Il lettore può quindi capire perché il Signor Lucas, e con lui un gran numero di economisti prossimi al capitale, non vogliano nemmeno sentir parlare di disuguaglianza: perché discutendone si vedrebbe subito ed in maniera chiara l’origine di tanta sofferenza delle classi popolari, ovvero l’enorme dominio che il mondo del capitale esercita sulle istituzioni dello Stato.

La concentrazione del capitale

Il fatto che la proprietà del capitale sia molto più concentrata della distribuzione dei redditi è risaputo. Nella maggior parte dei paesi dell’OCSE (il club dei paesi più ricchi del mondo) il 50% del capitale è nelle mani del 10% della popolazione. In Spagna, per esempio, uno dei paesi con la maggior concentrazione, il 10% della popolazione possiede circa il 65% della ricchezza del paese (vedasi il libro di Piketty, tavola 7.2). Invece la metà della popolazione non ha nessuna proprietà, anzi, in realtà è indebitata. La concentrazione del capitale fa sì che a maggiori rendite da capitale corrisponda una maggior disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. Una volta si diceva che l’aumento del potere della classe capitalista (termine che non si utilizza più perché considerato “antiquato”) porta all’aumento delle disuguaglianze.

Ovviamente le disuguaglianze tra il mondo del capitale ed il mondo del lavoro non sono l’unico fattore che spiega la disuguaglianza dei redditi di un paese. Però rappresentano il fattore più importante. Subito dopo vengono le disuguaglianze all’interno del mondo del lavoro stesso, che si riflettono principalmente nell’estensione della varietà dei salari. Ma persino queste disuguaglianze dipendono dalle forze derivate dal capitale. Maggiore è il potere della classe capitalista e maggiore è la dispersione salariale, ovvero la differenza tra i redditi più alti e quelli più bassi. Secondo il pensiero economico convenzionale la dispersione salariale dovrebbe funzionare da leva per stimolare l’efficienza economica, anche se in realtà le evidenze scientifiche mostrano che non esiste nessuna relazione tra le due. Tanto è vero che alcune delle aziende più efficienti (come le cooperative del gruppo Mondragon) hanno una dispersione salariale tra le più basse. L’obiettivo di questa dispersione, l’allargamento della forbice tra chi guadagna di più e chi guadagna di meno, è politico e non economico: si punta a dividere e quindi ad indebolire il mondo del lavoro.

Questa osservazione mostra i limiti della narrazione secondo la quale la crisi sarebbe il risultato del conflitto tra l’1% più ricco della società ed il restante 99%, slogan dal movimento Occupy Wall Street e molto ricorrente anche in Europa. Il sistema economico regge proprio grazie alla lealtà del restante 9% di popolazione con i redditi più alti, che appartengono al mondo del lavoro ma il cui posto e potere dipendono dall’1%. Per esempio, gli altissimi salari che ricevono i grandi guru mediatici non si devono alla loro competenza od efficienza, ma dipendono piuttosto dalla loro funzione di promulgatori dei valori che favoriscono l’1%.

In conclusione, le cause delle disuguaglianze sono politiche ed hanno principalmente a che fare con il grado d’influenza politica che i proprietari del capitale esercitano sugli Stati. Maggiore è la loro influenza e maggiori saranno le disuguaglianze sociali. Il fatto che le disuguaglianze siano aumentate enormemente dagli anni ’80 si deve alla svolta politica realizzata dal presidente Regan e la signora Thatcher, la rivoluzione neoliberista, che rappresentò e rappresenta tuttora la vittoria del capitale sulle forze del lavoro, vittoria che si perpetua grazie all’incorporazione dei partiti di centro-sinistra nello schema neoliberista promosso dal capitale. Ognuna delle misure neoliberiste (i tagli alla spesa pubblica sociale, la deregolamentazione del mercato del lavoro, l’indebolimento dei sindacati, la decentralizzazione ed individualizzazione dei contratti collettivi, la riduzione dei salari, ecc.) si riflette nel profitto del capitale e nella sua concentrazione a scapito dei redditi da lavoro. Sono politiche chiaramente di classe, che non si definiscono come tali perché il termine “classe” è considerato antiquato. Ed il fatto che questa terminologia si consideri oggi antiquata si deve proprio all’enorme influenza del capitale stesso. È comprensibile che i portavoce del mondo del capitale la considerino come tale, ma è invece suicida che anche i portavoce delle sinistre, in teoria vicini alle classi popolari, considerino questi termini antiquati. Confondono antico con antiquato. La legge di gravità è antica ma non per questo è antiquata. Se Lei ha dei dubbi al riguardo provi a saltare dalla finestra di un quarto piano e capirà. Questo è quello che sta succedendo ad un gran numero di partiti della sinistra di governo europei: stanno cadendo in picchiata dal quarto piano e non hanno ancora capito perché. Bisognerebbe avvertirli.

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