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(LA RESPONSABILITÀ DELLA VERSIONE ITALIANA DEGLI ARTICOLI PUBBLICATI NEL BLOG DEL PROFESSOR NAVARRO È DEL TRADUTTORE, MICHELE ORINI)

Articolo pubblicato da Viçenc Navarro sulla rivista digitale SISTEMA, 18/01/2013

In questo articolo si mostra come le basi che sostengono il pensiero convenzionale (secondo il quale per far uscire il paese dalla crisi bisogna ridurre i salari, come misura di svalutazione interna, con l’obiettivo di far scendere i prezzi e migliorare la competitività, e perciò aumentare le esportazioni) sono sbagliati e/o falsi. Un’analisi dettagliata dei dati a disposizione non permette di giungere alle conclusioni pretese da tale “pensiero convenzionale”.
(LA RESPONSABILITÀ DELLA VERSIONE ITALIANA DEGLI ARTICOLI PUBBLICATI NEL BLOG DEL PROFESSOR NAVARRO È DEL TRADUTTORE, MICHELE ORINI)
Il un nuovo consenso che si è sviluppato nei circoli economici e finanziari del paese (e che grazie all’enorme influenza che essi esercitano sui circoli mediatici e politici si è trasformato in senso comune) è che l’aumento delle esportazioni ci porterà fuori dalla crisi. Questo è il motivo per cui si sta dando molta importanza alla cosiddetta “svalutazione interna”, che dovrebbe rendere l’economia spagnola più competitiva. E visto che una tale svalutazione non si può fare attraverso la svalutazione della moneta, diminuendo i prezzi dei prodotti che si esportano, l’unica soluzione possibile è ridurre i salari. Questa riduzione, ci viene detto, renderà i prodotti più economici e consentirà maggiori esportazioni. E sarà proprio questa espansione che stimolerà l’economia, permettendoci di uscire dalla crisi.
Questa posizione ha ormai raggiunto la forma del dogma, tanto nell’establishment che dirige l’Unione Europea come tra i partiti più rappresentativi esistenti in Spagna, tanto che le politiche pubbliche volte ad uscire dalla crisi e portate avanti sia da Zapatero sia, con maggior ostinazione, dal governo Rajoy, sono frutto di questa visione. Le riforme del lavoro portate avanti da tali governi si ponevano come obbiettivo, mai esplicitamente dichiarato, la riduzione dei salari. La riduzione della protezione sociale e l’attacco frontale ai sindacati, che ha raggiunto la sua massima intensità col Governo Rajoy, erano e sono interventi orientati ad indebolire il mondo del lavoro, con il fine di raggiungere una riduzione dei salari. E la giustificazioni di tali politiche era ed è la necessità di rendere l’economia spagnola più competitiva al fine di potenziare le esportazioni. Questo è il dogma dominante.
L’errore del dogma secondo il quale si debbano diminuire i salari per aumentare la competitività
Però, come ogni dogma anche questo è sostenuto dalla fede (la fede nel pensiero neoliberale) invece che dall’evidenza scientifica. Esaminiamo i dati. Oggi il mercato europeo è bloccato a causa del fatto che, come conseguenza della riduzione dei salari e dei tagli alla spesa pubblica, la domanda interna di ogni paese è molto, molto debole. La crescita economica è molto bassa, se non negativa.
Uno dei risultati dell’integrazione delle economie dei paesi dell’Unione Europea è che la maggior parte del loro commercio avviene tra di loro. Le esportazioni dell’Eurozona verso paesi al di fuori della stessa rappresentano solo un 25% del PIL. E se escludiamo i paesi dell’Unione Europea che non fanno parte dell’Eurozona, risulta che le esportazioni dei paesi dell’Eurozona fuori dalla Unione Europea rappresentano solo un 16% (si, ha letto bene, solo un 16%), una quantità molto modesta. Ciò significa che più dell’80% dell’economia dei paesi dell’Eurozona dipende dalla domanda interna alla UE, domanda che risulta praticamente paralizzata dalle politiche di austerità che si stanno imponendo ai paesi dell’Eurozona, politiche che, tra l’altro, non sono state approvate dall’elettorato, perché non stavano nei programmi elettorali dei partirti che governano la maggior parte di tali paesi.
Il secondo dato che non si prende in considerazione nella tesi che le esportazioni e la diminuzione dei salari (che presumibilmente dovrebbero renderci più competitivi) risolveranno la crisi è che la Germania domina la vita economica e politica dell’Unione Europea e dell’Eurozona. Essa è, e viene considerata, il motore dell’economia europea. Da ciò ne consegue che sia anche il centro del commercio europeo. Ora, come è stato giustamente segnalato da Ronald Janssen nel suo articolo “Staying on the Austerity Course… into the Titanic’s Iceberg” (Social Europe Journal. 14.12.12), l’integrazione economica europea è asimmetrica, tutt’altro che equilibrata od uniforme. La Germania per esempio, risulta essere molto ben integrata con i suoi paesi limitrofi, ma poco, molto poco, integrata con i paesi della periferia come Grecia, Portogallo o Spagna. In realtà, le importazioni tedesche provenienti da questi paesi rappresentano solo l’1% del PIL tedesco. E nell’altro senso, le esportazioni di questi 3 paesi verso la Germania rappresentano solo il 2% della somma dei loro PIL
La Spagna non compete con la Germania
Basare la strategia per il recupero economico di questi paesi periferici sulle esportazioni verso il centro commerciale europeo (ovvero il mercato tedesco) è chiaramente insufficiente. Però quello che questi dati e queste percentuali mostrano è che l’argomento che costantemente si utilizza per abbassare i salari spagnoli (e quelli greci e portoghesi) per renderli più competitivi con l’economia tedesca manca di credibilità.
Si sottolinea più volte che in questi paesi il costo del lavoro è aumentato più che in Germania, rendendo così i prodotti spagnoli meno competitivi. Ma questo argomento parte dal presupposto che i prodotti spagnoli competano con quelli tedeschi, e ciò non è vero.  In uno studio realizzato da Jesús Felipe y Utsav Kumar (“Do some countries in the Eurozone need an internal devaluation? A reassessment of what unit labour costs really mean”. 31.03.11), si mostra il quadro delle esportazioni dei paesi dell’Eurozona. E da questo studio si evince chiaramente che le esportazioni tedesche sono molto diverse da quelle spagnole, per cui non esiste nessun tipo di competizione. Dove risiede dunque la necessità di abbassare i salari spagnoli per raggiungere i livelli di competitività tedeschi, se questa competizione non esiste? In realtà, analizzando le esportazioni per tipo di prodotto, risulta che i costi del lavoro per unità di produzione sono più bassi in Spagna che in Germania, per cui, per quanto riguarda certi prodotti, come quelli ad alta tecnologia, la competitività spagnola è già garantita.
Il punto centrale è che la presunta bassa competitività spagnola non ha nulla a che vedere con il prezzo del lavoro, i salari, ma con altri fattori che influenzano in modo determinante i costi di produzione, come per esempio il costo dell’energia (la più cara della UE) o gli eccessivi profitti (tra i più alti della UE). Jesús Felipe y Utsav Kumar mostrano chiaramente che mentre in Spagna durante il periodo 1995-2007 l’aumento dei salari (ed altre compensazioni) è stato più basso che l’aumento della produttività, mentre l’aumento dei profitti è stato molto maggiore dell’aumento della produttività. In altre parole, i dati di questo, come di altri studi, mostrano che i profitti delle imprese sono stati i maggiori beneficiari dell’aumento della produttività. Ed i dati mostrano altrettanto chiaramente che il maggior capitolo di spesa non è stato quello relativo ai salari, ma quello relativo ai costi del capitale e di altri input, come i costi energetici, risultato di un’enorme negligenza, se non di una certa complicità, dello Stato con le compagnie del settore energetico.
Dove risiede il problema della competitività
Però la causa principale di ciò che viene erroneamente chiamato “problema della limitata competitività dell’economia spagnola” è la pessima politica economica dello Stato, che ha dato sistematicamente priorità a settori di bassissimo valore aggiunto, come il settore bancario-immobiliario-edile, che ha consumato enormi risorse del paese. Li risiede la radice del problema. Non è il mondo del lavoro il responsabile della presunta bassa competitività. Responsabili sono le politiche economiche, industriali, finanziarie e fiscali che hanno creato una struttura economica non favorevole all’arricchimento di tutta la società nel suo complesso.
Questo ci porta ancora a mettere in questione la strategia che pretenderebbe farci uscire dalla crisi a base di esportazioni. La crisi economica e finanziaria spagnola nasce dalla eccessiva concentrazione dei profitti, e dalla riduzione del potere d’acquisto della popolazione che ha forzato il suo enorme indebitamento in maniera congiunta con alcune pratiche speculative da parte del grande capitale, che ha causato, tra le altre attività, la bolla immobiliare che, quando è scoppiata, ha portato ad un enorme disastro. A meno che non si risolva questa questione, prendendo misure quasi opposte a quelle che oggi si stanno imponendo, che comprendano la nazionalizzazione del credito a politiche pubbliche di stimolo degli investimenti nelle infrastrutture sociali e fisiche del paese, a disposizione della maggioranza, e non alla minoranza della popolazione (come è successo con l’AVE), attraverso politiche pubbliche orientate a creare lavoro con l’obiettivo di raggiungere la piena occupazione, non ci sarà nessuna uscita dalla crisi.
Competitività ed euro
Due ultime osservazioni. Una delle maggiori cause del cosiddetto problema della competitività spagnola trova la sua origine nelle politiche pubbliche dei governi tedeschi, che hanno potenziato le esportazione riducendo la domanda interna, mantenendo salari bassi, più bassi di quelli che sarebbero dovuti corrispondere al suo livello produttivo. La strategia di dare la priorità alle esportazioni e non alla crescita della domanda interna tedesca, mantenendo dei salari di molto inferiori al livello di produttività generato dalla classe lavoratrice tedesca, ha creato un enorme problema nell’Eurozona, per varie ragioni. Una di queste è che la stagnazione della domanda interna tedesca ha frenato il commercio europeo in maniera molto evidente (anche se ciò ha comportato implicazioni minori per la Spagna, dovuto allo scarso commercio esistente tra Spagna e Germania, come segnalato all’inizio di questo articolo).
Però ciò che ha fortemente penalizzato la Spagna e tutta l’Eurozona è stato che il potenziamento delle esportazioni ed un saldo esterno molto positivo hanno mantenuto l’euro artificialmente alto, e ciò ha messo in grave difficoltà paesi come la Spagna, che non hanno potuto competere con i paesi fuori dalla zona euro a causa del valore artificialmente troppo alto della moneta. In realtà, e contro gli allarmisti che sostenevano che la sopravvivenza dell’euro era in pericolo, l’euro non è mai stato (ripeto mai) in pericolo. Il suo valore fu sempre molto forte (più di quello che sarebbe consigliabile) e mai è stato al punto di sparire. L’allarmismo era parte di una strategia per forzare i paesi periferici ad accettare i sacrifici che il presunto “salvataggio dell’euro” esigeva.
E li sta il problema, del quale non si parla. La Germania, che domina l’ Eurozona, ha imposto delle politiche di austerità a tutta l’Eurozona, e in maniera particolare ai paesi periferici, che hanno danneggiato enormemente le classi popolari di tali paesi, e questo a beneficio delle élites governanti in Germania ed in tali paesi.
L’altra osservazione è che, per quanto difficile possa sembrare, ci sono in Spagna, come in Catalogna, un  gran numero di economisti che negano che oggi si stiano portando avanti politiche di austerità. Fanno notare il forte aumento del debito pubblico spagnolo, che continua tuttora a salire, come prova che dell’austerità in Spagna non ci sia traccia.
Gli economisti che fanno propria questa posizione si domandano: “com’è possibile che in un paese con un aumento così marcato del debito pubblico, si possa parlare di politiche di austerità?” Questa stessa domanda è stata fatta a Paul Krugman durante un dibattito su Macroeconomia e Recessione pubblicato recentemente (vedasi: “Rough transcript Stimulus or Stymied?:The Macroeconomics of recessions” de J. Bradford DeLong).  La sua risposta può essere applicata anche al caso spagnolo, dove la crescita del debito pubblico è stata ancora più marcata che negli Stati Uniti. La domanda, più o meno, era: “Come può Lei parlare di austerità quando il governo federale sta funzionando con un deficit ed un debito pubblico così elevato?”. E la risposta è che l’aumento del deficit e del debito non sono, negli Stati Uniti (e nemmeno in Spagna), risultato di un elevato aumento della spesa pubblica, ma si devono alla riduzione delle entrate statali. Da ciò ne consegue che sia profondamente sbagliato porre tutti i deficit e debiti pubblici sullo stesso piano, come sostengono quelli che negano che in Spagna si stiano attuando politiche di austerità. È la diminuzione degli ingressi, e non l’aumento della spesa pubblica (che è quello che ha un effetto di stimolo), ciò che da origine un aumento del deficit e del debito pubblico. Li sta il perno della questione. La economia non può recuperarsi ne a base di esportazioni, ne a base di tagli alla spesa pubblica. Ciò di cui si ha bisogno è precisamente uno stimolo economico basato sull’aumento della spesa pubblica volto a creare lavoro ed eliminare la disoccupazione, congiuntamente alle altre misure esposte in precedenza.
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