(LA RESPONSABILITÀ DELLA VERSIONE ITALIANA DEGLI ARTICOLI PUBBLICATI NEL BLOG DEL PROFESSOR NAVARRO È DEL TRADUTTORE, MICHELE ORINI)
Articolo pubblicato da Vicenç Navarro nella rubrica “Dominio Publico” del quotidiano PÚBLICO, il 23/05/2013
In questo articolo si analizzano le cause della povertà del Bangladesh e si mettono in questione molte delle argomentazioni riportare dai mezzi d’informazione di maggior diffusione. Il maggior problema del Bangladesh (il paese più povero al mondo assieme ad Haiti) non è la mancanza di risorse, ma il loro controllo. Nonostante la maggior parte della sua popolazione sia molto povera, il Bangladesh non è un paese povero.
La prossima volta che va a comprarsi una camicia, o qualsiasi altro prodotto tessile, guardi dove viene fabbricato tale prodotto. Vedrà che la maggior parte di tali prodotti provengono da paesi cosiddetti poveri (in realtà sono paesi con grandissime quantità di risorse, in generale controllate da interessi finanziari ed economici stranieri) dove gli esseri umani che li producono vivono in condizioni miserrime. Uno di questo è il Bangladesh. Il Bangladesh è un paese molto ricco. La sua terra, estremamente fertile, può produrre cibo a sufficienza per soddisfare le necessità alimentari di una popolazione venti volte superiore a quella attuale. E ciononostante, la maggioranza della popolazione, ed in particolare quella che vive in zone rurali (l’82%), è malnutrita. Ampi settori della popolazione soffrono la fame.
Il Bangladesh è considerato, assieme ad Haiti, il paese più povero del mondo, ovvero il paese con la più alta percentuale di popolazione povera al mondo, nonostante i dati mostrino come entrambi i paesi posseggano risorse sufficienti per uscire dalla povertà (si vedano “Cólera en Haití”, El Plural, 16.12.12; e “Continúa el escándalo del cólera en Haití” Público, 27.02.13).
La causa di tanta povertà non è, ovviamente, la mancanza ma il controllo di risorse. Il 16% dei proprietari terrieri controllano il 60% di tutta la terra, che fanno coltivare per poi esportare cibo verso i cosiddetti paesi sviluppati. I proprietari terrieri sono alleati in una casta che sta al servizio di compagnie straniere del settore agricolo che dirigono lo sfruttamento della terra: ciò che si produce, come si produce e come si distribuisce.
Questa struttura produttiva è affiancata da un sistema politico che si autodefinisce democratico e rappresentativo: è retto da più partiti e si basa su elezioni parlamentari. Questo sistema è però fortemente influenzato dal blocco di potere economico-finanziario-politico costituito dai grandi proprietari terrieri, che sono coloro che a tutti gli effetti governano il paese. Questa enorme concentrazione di proprietà della terra crea un’enorme povertà. E la maggior parte del cibo che si produce viene consumato all’estero.
Questa oligarchia agricola è alleata con altri interessi domestici, a loro volta legati a compagnie straniere che producono in Bangladesh a dei costi bassissimi. La popolazione che fugge la miseria agricola accetta dei salari miserrimi perché non c’è altra possibilità. Questa struttura economico-politica mantiene la maggior parte dei lavoratori, in tutti i settori dell’economia incluso il tessile, senza alcuna protezione. Il settore tessile è controllato dai grandi colossi che dominano il mercato internazionale, come, tra i tanti, Benetton H&M e Mango, e da una lunga lista di catene internazionali di distribuzione e commercio, come per esempio El Corte Inglés. Queste compagnie operano in Bangladesh a causa del bassissimo costo della manodopera (0,21 euro all’ora), che lavora in condizioni miserabili, in fabbriche carenti dei requisiti minimi di sicurezza. Dal 2005 sono morti più di 700 lavoratori a causa di incendi scoppiati nelle fabbriche. Uno dei più recenti, come indica David Bacon nel suo articolo “Bangladesh disaster: Who Pays the Real Price for your Shirt?”, The Progressive (26.04.13), risale al 24 Novembre del 2012 e scoppiò nella fabbrica tessile di Tazreen. In quell’incendio morirono 112 lavoratori. Un numero altissimo per un incendio di questo tipo. E le cause sono da ricercare tra le pessime condizioni delle fabbriche. Nessuna di esse ha delle uscite di emergenza (in realtà tutte le porte vengono chiuse a chiave per evirate che i lavoratori escano, eccetto durante le ore di inizio e fine turno) e non dispongono di estintori.
Nella disgrazia di poche settimane fa a Rana Plaza (29Km da Dhaka), dove morirono più di 1000 persone, l’edificio è crollato a causa delle molte ed ampie crepe che si erano aperte nelle pareti, e che erano state puntualmente denunciate dai lavoratori. Le loro denunce però sono state ignorate dal proprietario dell’edificio, il signor Sohel Rana, che è, guarda caso, uno dei dirigenti del partito al potere, Awami League. Pochi giorni dopo il crollo della fabbrica, 20000 lavoratori di una fabbrica vicina hanno partecipato ad una manifestazione di protesta. La struttura di potere che governa il Bangladesh è pienamente cosciente di essere seduta su di un vulcano pronto ad esplodere, esattamente come succede nella maggior parte dei paesi cosiddetti poveri. Questo la induce ad esercitare una terribile repressione. La polizia infatti si è mobilizzata immediatamente per allontanare la possibilità che il vulcano salti in aria.
Esiste però anche un’altra forma di repressione, praticamente mai raccontata dai mezzi di informazione, diretta dalle grandi corporazioni tessili straniere che, alleate con le élites al governo del paese, configurano gli interventi pubblici che sostengono un sistema basato su di un enorme sfruttamento. Mi riferisco all’industria delle certificazioni (che ha un mercato di 80 miliardi di dollari) al servizio di queste compagnie tessili. Queste compagnie proteggono le compagnie sfruttatrici, definendole legali e minimizzando o banalizzando mediaticamente il danno e la partecipazione di queste ultime nella contrattazione di quelle fabbriche. Dietro ad ogni corporazione (siano tessili o meno) esistono compagnie di certificazione che cercano di minimizzarne i costi (inclusi i costi mediatici e di immagine che questi disastri rappresentano per le compagnie).
Che fare di fronte a questa situazione?
Molte cose:
1) Denunciare questa situazione di modo che la mobilitazione porti i cittadini dei paesi importatori a boicottare i prodotti provenienti dai luoghi dove si fa lavorare la gente in condizioni che dovrebbero essere considerate inaccettabili. Le aziende che utilizzano questi prodotti sono al giorno d’oggi tra le più redditizie, e traggono i loro proventi da un’enorme sfruttamento. Varie catene di televisione dei paesi nordici hanno smesso di offrire spazio pubblicitario alle industrie tessili che lavorano in Bangladesh, inclusa la Svezia contro H&M, industria tessile svedese.
2) Stabilire norme di commercio internazionale per cui le condizioni di lavoro, salariali, i diritti umani, compreso quello di riunirsi in sindacato, siamo rispettati, e considerati condizione indispensabile per permettere il commercio.
Questi sono interventi che si stanno esplorando per palliare l’enorme sfruttamento messo in atto nei cosiddetti paesi poveri. Molti di questi interventi sono mossi da buone intenzioni e meritano di essere applicati. Ma bisogna ammettere che questi interventi sono chiaramente insufficienti, poiché la radice del problema sta nella pessima distribuzione di potere in questi paesi, governati da una minoranza estremamente poderosa, apparentata con le grandi corporazioni (erroneamente chiamate multinazionali, poiché sono tutte basate in Stati-nazione, i quali le proteggono nei loro interventi pubblici).
Ciò che bisognerebbe auspicare che succeda è una sostanziale redistribuzione delle risorse che tali paesi già possiedono, di modo che la domanda interna possa fungere da motore dell’economia, invece che le esportazioni, le quali beneficiano segmenti della popolazione molto limitati. Il caso della Cina, che prima del Bangladesh era la fornitrice di mano d’opera pessimamente pagata dell’industria tessile, mostra i grandi limiti di un’economia basata sulle esportazioni. Il cosiddetto miracolo economico cinese si basa su di una fortissima oppressione delle classi popolari, con un chiaro attacco al benessere sociale, come mostra l’aumento della mortalità infantile nelle zone rurali dove vive la maggior parte della popolazione. Qualcosa di simile sta succedendo adesso in Bangladesh.
Il modello basato sulle esportazioni, che è il modello neoliberista, è stato già sperimentato in America Latina, Africa ed Asia, ed è stato un fallimento. Sulla carta si configura come una grande successo perché il PIL cresce in maniera molto marcata (in parallelo alla crescita delle esportazioni) e, come conseguenza, anche il PIL pro-capite cresce in maniera significativa. Ma la media è una stima che non include nessuna informazione relativa alla distribuzione della ricchezza. In tutti questi paesi si è assistito ad un assorbimento della ricchezza da parte di una minoranza che controlla il potere politico a discapito dell’impoverimento della maggior parte della popolazione.
Le prove scientifiche che confermano quest’analisi sono schiaccianti. Gli unici paesi che sono usciti dalla povertà sono quelli che hanno applicato misure redistributive, le quali hanno aumentato la capacità di acquisto della popolazione, facendo si che la domanda interna diventasse il motore dell’economia.
Qui risiede veramente il problema che si cerca di nascondere nei media di maggiore diffusione. Se il governo di un paese erroneamente chiamato povero prendesse queste misure redistributive, genererebbe immediatamente un’enorme ostilità nei centri di potere dei paesi cosiddetti sviluppati. Ostilità dovuta in parte all’enorme potere che le compagnie legate alle esportazioni esercitano sugli Stati di queste corporazioni transnazionali (erroneamente chiamate multi-nazionali), ed in parte al potere delle classi più agiate dei paesi sviluppati, che sono solite allearsi con le classi agiate dei paesi erroneamente chiamati poveri. Entrambi entrano in panico quando sentono parlare di e/o vedono esperienze efficaci di ridistribuzione delle risorse, poiché pensano (correttamente) che possano avere ripercussioni negative sui loro interessi. È ciò che il mio amico Jeff Faux, fondatore del “Economy Policy Institute”, descrisse tanto tempo fa come “l’alleanza delle classi dei potenti del mondo”. Ma su questi temi, caro lettore, non leggerà niente nei giornali e non vedrà niente alla televisione.
Un’ultima osservazione. La maniera nella quale si è sviluppata la globalizzazione nel mondo, ovvero seguendo il criterio neoliberista, non ha reso alcun beneficio ne al mondo dei paesi in via di sviluppo (vedasi il Bangladesh), ne al mondo dei paesi sviluppati (vedasi la distruzione dell’industria tessile catalana). Bisogna invertire questa globalizzazione, de-globaizzando l’economia internazionale, creando zone regionali (come il MERCOSUR) e d’integrazione economica di paesi caratterizzati da un livello simile di sviluppo, evitando la riduzione dei salari come strumento di competizione (la tipica soluzione liberista), tema che ho ampiamente affrontato in diversi libri (“Globalización económica, poder político y Estado del bienestar” e “Neoliberalismo y Estado del Bienestar”) e che affronterò in un prossimo articolo.
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