(LA RESPONSABILITÀ DELLA VERSIONE ITALIANA DEGLI ARTICOLI PUBBLICATI NEL BLOG DEL PROFESSOR NAVARRO È DEL TRADUTTORE, MICHELE ORINI)
Articolo pubblicato da Vicenç Navarro nel giornale LE MONDE DIPLOMATIQUE, luglio 2013
In questo articolo si mostra come la relazione tra mondo del capitale ed il mondo del lavoro abbia configurato la crisi attuale, sia economica che finanziaria.
Nonostante la vastissima letteratura sulle cause della crisi attuale, pochi autori si sono centrati sul conflitto capitale-lavoro (quello che una volta veniva chiamato “lotta di classe”). Ciò può essere dovuto all’attenzione posta sulla crisi finanziaria come unica causa della recessione attuale. Questo ha distratto gli analisti dal contesto economico e politico nel quale è venuta configurandosi sia la crisi finanziaria che la crisi economica, sociale e politica che stiamo vivendo. In realtà non si possono analizzare queste crisi e le loro interazioni senza riferirsi al conflitto capitale/lavoro. Come giustamente disse Marx: “La storia dell’umanità è la storia della lotta tra le classi”. Le crisi attuali ne sono un chiaro esempio.
Durante il secondo dopoguerra, il conflitto tra le rendite da capitale contro redditi da lavoro si affievolì grazie ad un patto tra i due avversari. Da questo patto derivò un aumento dei salari in accordo con l’aumento della produttività, che comprendeva anche il salario sociale (con l’aumento della protezione sociale basata nello sviluppo dei servizi dello Stato previdenziale). Di conseguenza i redditi da lavoro aumentarono considerevolmente, raggiungendo il massimo (nei paesi nordatlantici) negli anni ’70: la partecipazione dei salari, in termini di compensazione per impiegato, raggiunse il 70% del PIL negli USA, il 72.9% del PIL nei paesi che adesso fanno parte dell’Europa a 15; il 70.4% in Germania; 74.3% in Francia; 72.2% in Italia; 74.3% nel Regno Unito; 72.4% in Spagna.
Tra la fine degli anni ’70 ed inizio degli anni ’80 questo patto si ruppe a causa della ribellione del capitale contro l’avanzamento del mondo del lavoro. La risposta del capitale fu lo sviluppo di una nuova cultura economica basata sul liberismo, con una rinnovata ed accentuata aggressività. È il pensiero che oggi chiamiamo neoliberismo, il cui obbiettivo è recuperare il terreno perduto attraverso l’indebolimento del mondo del lavoro. A partire d’allora, l’aumento della produttività non si tradusse più in un aumento dei redditi da lavoro, ma piuttosto in un aumento delle rendite da capitale. Questa risposta portata avanti mediante lo sviluppo di politiche neoliberiste, che hanno costituito un attacco frontale ai lavoratori, si è rivelata vincente: i redditi da lavoro sono diminuiti nella grande maggioranza dei paesi citati anteriormente. Sono scesi al 63.6% del PIL negli USA; al 66.5% nei paesi dell’Europa a 15; al 65.2% in Germania; al 68.2% in Francia; al 64.4% in Italia; al 72.7% nel Regno Unito ed al 58.4% in Spagna. La diminuzione dei redditi da lavoro nel periodo 1981-2012 fu del -5.5% negli USA, -6.9% nella UE-15, -5.4% in Germania, -8.5% in Francia, -7.1% in Italia, -1.9% nel Regno Unito e -14.6% in Spagna.
Queste politiche furono inaugurate nel 1979 nel Regno Unito dal primo ministro Margaret Thatcher e nel 1980 negli USA dal presidente Ronald Regan. Furono poi accettata come “inevitabili e necessarie” dal governo socialista francese di François Mitterand nel 1983, che sostenne che programma con il quale era stato eletto nel 1980, di chiara orientazione keynesiana, non poteva essere applicato dovuto alla europeizzazione e globalizzazione dell’economia. Questa posizione era sostenuta dalla corrente dominante all’interno della socialdemocrazia europea, conosciuta come Terza Via (in Spagna sostenuta a partire dal 1982 dal governo di Felipe Gonzales).
L’applicazione di queste politiche neoliberiste, definite “socio-liberiste”, hanno caratterizzato le politiche dei governi socialdemocratici europei. Tutte queste si ponevano come obiettivo l’integrazione delle economie dei paesi della UE in un mondo globalizzato, aumentando la competitività attraverso stimoli alle esportazioni a costo di una diminuzione della domanda interna, conseguenza della riduzione dei salari. Una conseguenza di queste politiche fu che l’aumento della produttività non si tradusse più in aumento dei salari, ma in un aumento delle rendite da capitale.
Una componente chiave per raggiungere questo obiettivo fu la disoccupazione, usata come strumento di disciplinarizzazione del lavoro. In tutti questi paesi la disoccupazione aumentò enormemente. Tra il 1970 ed il 2010, negli USA aumentò dal 4.8% al 9.6%. Nei paesi dell’Europa a 15 aumentò dal 2.2% al 9.6%; in Germania dallo 0.6% al 7.1%; in Francia dall’1.8% al 9.8%; in Italia dal 4.9% all’8.4%; nel Regno Unito dall’1.7% al 7.8% ed in Spagna dal 2.4% al 20.1%.
La polarizzazione dei redditi, con un aumento delle rendite da capitale e la diminuzione dei redditi da lavoro, è all’origine delle crisi economiche e finanziarie. La diminuzione dei redditi da lavoro generò un grande problema di scarsità di domanda privata. Ma quest’ultima passò inosservata a causa di vari fattori. Uno di questi fu la riunificazione tedesca del 1990 e l’enorme spesa pubblica che l’accompagnò (con l’obbiettivo di incorporare la Germania Est alla Germania Ovest e facilitare l’espansione della Germania Ovest verso la Germania Est), che venne principalmente finanziata dall’aumento del deficit pubblico della Germania, i cui conti passarono da un avanzo dello 0.1% del PIL nel 1989 ad un deficit che raggiunse il -3.4% nel 1996. La Germania perseguì quindi una politica di stimolo attraverso la spesa pubblica che, considerando le sue dimensioni e la sua centralità, beneficiò all’economia europea in generale.
Il secondo fattore fu l’enorme indebitamento privato della popolazione. I crediti a basso costo concessi dal sistema bancario ritardarono l’impatto della diminuzione dei salari sulla riduzione della domanda. L’ indebitamento venne facilitato in Europa dall’introduzione dell’Euro, che portò tendenzialmente a far coincidere gli interessi dell’Eurozona con quelli tedeschi. La conseguenza della sostituzione del marco tedesco e di tutte le altre monete europee con l’Euro fu la germanizzazione degli interessi monetari. La Spagna ne è un chiaro esempio. Il prezzo del credito raggiunse livelli mai così bassi, facilitando enormemente l’indebitamento delle famiglie e delle imprese spagnole. In questo modo l’enorme perdita del potere d’acquisto dei lavoratori spagnoli passò inosservata.
Dall’altra parte, la massiccia accumulazione di capitale (risultato del fatto che la maggior parte della ricchezza dei paesi dovuta all’aumento della produttività andasse predominantemente ad aumentare le rendite da capitale invece che i redditi da lavoro) spiega l’aumento delle attività speculative, l’apparizione di bolle, di cui quelle immobiliari furono le più comuni, ma non le uniche. La redditività era molto più alta nel settore speculativo piuttosto che nel settore produttivo, che si trovava un po’ in difficoltà a causa della diminuzione della domanda. La caratteristica di questo periodo fu l’aumento del capitale finanziario nell’area nordatlantica, aumento dovuto all’indebitamento ed alle attività speculative. Questa crescita si basò in parte sulla necessità d’indebitarsi, necessità derivante dalla diminuzione dell’aumento dei salari in tutti questi paesi, ed in particolare in quelli dell’Europa a 15 (i più ricchi). La crescita media scese nei 7 paesi dell’Eurozona da un 3.5% nel periodo 1991-2000 al 2.4% nel periodo 2001-2010; In Germania passò dal 3.2% all’1.1% ed in Spagna dal 4.9% al 3.6%.
Gli establishments finanziari e politici dell’Unione Europea credettero che la crisi finanziaria fosse stata causata dal collasso della banca statunitense Lehman Brothers e che di conseguenza si sarebbe limitata al settore bancario statunitense. Thomas Palley, uno degli studiosi economici più brillante degli Stati Uniti ma quasi sconosciuto in Europa cita all’allora ministro delle Finanze tedesco, il socialista Peer Steinbrück (candidato dell’SPD alla cancelleria nelle elezioni del prossimo 22 settembre) il quale profetizzò che la crisi, risultato delle debolezze del sistema finanziario statunitense, avrebbe significato la fine dello strapotere finanziario degli USA. Il collasso del dollaro, secondo lui, avrebbe finito per beneficiare l’euro.
L’ironia di questa predizione fu che alla fine la banca tedesca fu salvata proprio dalla Federal Reserve Board, la banca centrale statunitense. Il modello tedesco basato sulle esportazione rese le banche tedesche molto esposte, contaminate, e quindi molto vulnerabili. Le banche tedesche erano massivamente intossicate dai prodotti speculativi (subprimes) delle banche statunitensi. Tra il 2007 ed il 2009, grandi banche come la Sachsen LB, la IKB Deutsche Industriebank, la Deutsche Bank, la Commerzbank, la Dresdner Bank o la Hypo Real Estate, così come le casse di risparmio (BayernLB, WestLB e DZ Bank) entrarono in una profonda crisi di solvibilità e dovettero essere tutte riscattate, e molte di esse, tra l’altro, con l’aiuto della Federal Reserve degli USA.
L’orientamento economico basato sulle esportazioni, tipico del modello liberista, aveva contagiato profondamente il capitale finanziario tedesco, dovuto agli investimenti finanziari sia nelle banche statunitensi (piene di prodotti tossici) sia nei paesi periferici chiamati PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) e più tardi denominati GIPSI (con l’incorporazione dell’Italia), pieni di attività speculative di tipo immobiliare. In realtà la crisi finanziaria tedesca ed europea era persino peggiore di quella statunitense e quando l’enorme bolla speculativa scoppiò (essendosi paralizzate le banche tedesche), apparve in tutta la sua crudezza il problema dell’indebitamento causato dalla riduzione della domanda, dovuta a sua volta alla diminuzione dei redditi da lavoro.
Una delle cause di tutto ciò è l’architettura del sistema di governo dell’euro, dominato dal capitale finanziario. Questo sistema di governo è il prodotto di un disegno neoliberista che si basa, in parte, sulla differenza tra il comportamento della Banca Centrale Europea ed la Federal Reserve, ed in parte sul diverso modello di esportazione europeo e statunitense (multipolare negli Stati Uniti e centrato sulla propria Eurozona nel caso europeo).
La Banca Centrale Europea non è una banca centrale. La Federal Reserve si che lo è. La Banca Centrale Europea non presta soldi agli Stati e non li protegge dalla speculazione dei mercati finanziari. Da ciò ne deriva che gli Stati periferici si trovino senza protezione e debbano pagare interessi chiaramente abusivi che hanno generato l’enorme bolla del loro debito pubblico. Questo non avviene negli USA. La Federal Reserve protegge gli stati nordamericani. La California ha un debito pubblico preoccupante tanto quanto quello greco, ma ciò, a differenza che in Grecia, non rappresenta una situazione asfissiante per la sua economia.
Alla luce di questi fatti è assurdo che si accusino i paesi periferici di aver causato la crisi per colpa della loro mancanza di disciplina fiscale. La Spagna e l’Irlanda avevano i conti a posto ed un avanzo primario durante il periodo 2005-2007. Erano gli allievi modello della scuola del pensiero neoliberista, diretta dalla commissione Europea, con il ministro Pedro Solbes, che era stato commissario agli Assunti Economici della UE, a fare d’architetto di tale ortodossia. In realtà la Germania nello stesso periodo, 2005-2007, aveva un deficit pubblico maggiore di quello della presuntamente indisciplinata Spagna.
Non fu l’inesistente mancanza di disciplina fiscale, ma la mancanza di una Banca Centrale che appoggiasse il debito, il fattore che causò la crescita degli interessi sul debito pubblico, il cui spread beneficiò, tra le altre, le banche tedesche. Il fine ultimo delle misure di riduzione della spesa pubblica, compresa la spesa pubblica sociale, è quello di pagare gli interessi alle banche, e tra le altre, alle banche tedesche. L’enorme sacrificio dei paesi cosiddetti GIPSI non ha niente a che vedere con la spiegazione data dai media e forum di diffusione del pensiero neoliberista, i quali attribuiscono i tagli alla necessità di correggere i precedenti eccessi, ma è dovuto alla necessità di pagare le banche che controllano la Banca Centrale Europea che, invece di aiutare gli Stati, li indebolisce, di modo che debbano pagare interessi più elevati alle stesse banche. Le prove di tutto ciò sono schiaccianti. Il famoso riscatto della banca spagnola è in realtà il riscatto della banca europea, inclusa quella tedesca, che ha investito più di 200 miliardi di euro in prodotti finanziari spagnoli.
Una variante della spiegazione in chiave liberista della crisi è quella secondo la quale il problema dell’Eurozona risiede nel differenziale di competitività: ci sarebbero da una parte i paesi centrali, come la Germania e l’Olanda, molto competitivi, e dall’altra i poco competitivi paesi del Sud. Questo differenziale spiegherebbe perché i primi abbiano una bilancia commerciale in attivo (esportano più di quanto importano), mentre i secondi hanno una bilancia commerciale negativa (importano più di quanto esportano). Da ciò ne deriva che la soluzione risieda in una maggiore crescita della competitività di questi ultimi (ciò che viene chiamata svalutazione interna).
Ma anche quest’argomentazione presenta seri problemi. Prima di tutto, quando scoppiò la crisi ne l’Italia ne l’Irlanda avevano delle bilance commerciali negative. Tra l’altro lo squilibrio negativo della bilancia dei pagamenti nei paesi GIPSI fu dovuto principalmente all’aumento delle importazioni, risultato dell’indebitamento, e non alla diminuzione della competitività. Ed al giorno d’oggi, il riequilibrio della bilancia commerciale è dovuto alla scarsa domanda interna. In entrambi i casi, niente a che vedere con variazioni della competitività. In realtà, la produttività del lavoro standardizzata per attività economica non è sostanzialmente diversa in Germania ed in Spagna. Per cui il problema non può spiegarsi basandosi sul differenziale di competitività, ma bensì è dovuto ad un differenziale di domanda, accentuato a livello europeo da un problema strutturale, risultato della diminuzione dei redditi da lavoro.
Il motore dell’economia della Eurozona si basa sul modello esportatore tedesco, il cui successo si basa sulla moderazione salariale tedesca (salari molto al di sotto del livello corrispondente al livello di produttività), sull’impossibilità dei paesi periferici di ridurre il costo della propria moneta (a beneficio della stessa Germania), sulla mobilità di capitali dalla periferia al centro e sul dominio delle strutture finanziarie che influenzano enormemente la Banca Centrale Europea che non svolge la funzione di banca centrale. Interpretare la bilancia commerciale come il risultato di una differenza di produttività è profondamente sbagliato.
In realtà, la Germania dovrebbe attuare come motore di stimolo dell’economia, non attraverso l’aumento delle proprie esportazioni (a base di salari bassi), ma al contrario attraverso un aumento della sua domanda interna, aumentando i salari e migliorando la scarsa protezione sociale. Il lavoratore tedesco ha più punti in comune con il lavoratore medio dei paesi GIPSI che con l’establishment finanziario ed esportatore. Anche nei paesi periferici dovrebbero perseguirsi politiche di stimolo, invertendo le misure di austerità che stanno contribuendo alla recessione, ed al malessere delle classi popolari; a queste politiche si oppongono gli agenti del capitale, poiché vedrebbero diminuire i loro ingressi. Così è, chiaramente. Marx, in fondo, aveva ragione.
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